L’AFRICA è DONNA

L’AFRICA è DONNA
Quando le vedo al mercato, avvolte nelle lunghe tuniche colorate di verde smeraldo, di blu cobalto, di giallo canarino, come nessuna donna italiana avrebbe il coraggio di fare, penso che in fondo possono permetterselo, perché portano dentro la solarità, la dignità e la forza d’animo di un intero Continente. Sono le donne africane, a cui non importa di omologarsi con la gente della Nazione che le ha accolte, che non rinnegano il sapore della loro Terra. E la cosa più bella, è che mentre acquistano magliette e verdure, dietro alle grandi acconciature lucide e ai portentosi orecchini a ciondolo, portano sempre il loro bambino con sé. Perché, per loro, essere donne non è mai scindibile dall’essere madri.
Per un attimo ritorno indietro con la mente ai 35 gradi del Burkina Faso, dove qualunque cosa stiano facendo, dovunque vadano, sono sempre bellissime, e sempre col solito fagottino sulla schiena.
Le donne che puliscono e tengono in ordine le case, che coltivano i fagiolini, che vendono pesce al mercato e che percorrono con il passo cadenzato del pomeriggio i chilometri, alla ricerca paziente e caparbia dell’acqua. Sono le donne che, nel piccolo villaggio di lamiere perduto nel deserto, con le lunghe braccia morbide lavorano il karitè nero con la pietra sulla pietra. Che battono il miglio nei grandi mortai per tutta la famiglia. E che all’alba si alzano per prime per andare a lavorare nessuno sa dove.
Come racconta Paolo Caneva, referente in Etiopia del Movimento Shalom: “Qui in Etiopia viviamo ancora una situazione dove il padre di famiglia detta le regole in modo insindacabile e per la moglie e i figli non c’è possibilità di replica, altrimenti le violenze si fanno strada. E’ veramente difficile trovare un padre di famiglia che si assume le sue responsabilità come uomo, marito e padre, ma pensa solo a se stesso e ai suoi divertimenti, e purtroppo, molte volte i figli maschi ne seguono l’esempio.”
Non c’è da mitizzare né da sovrastimare le donne d’Africa e non voglio perdermi nei luoghi comuni diffusi in Occidente: come in ogni Paese non sono tutte perfette. Penso purtroppo alle madame che spingono i giovani alla prostituzione, o alle madri che ancora costringono le figlie all’infibulazione.
Detto questo, credo anche che a ragione si possa affermare che in nessun altro Paese del mondo le donne hanno avuto e hanno tutt’oggi un ruolo centrale, da protagoniste positive, come in Africa. Sono loro la spina dorsale del Paese: madri, lavoratrici, forza produttrice e riproduttrice del Continente.
Eppure la figura femminile in Africa è ridotta a un ruolo subalterno, quasi invisibile, a causa di una società patriarcale dove la donna ha minori diritti rispetto all’uomo, soprattutto nell’alfabetizzazione e nella formazione.
Per questo nel 2011, 48 ONG mondiali chiedevano di assegnare il Premio Nobel Per la Pace a tutte le donne Africane, unendosi nella Campagna Noppaw (Noble Peace Prize for African Women): un progetto che si proponeva di fare pressioni sulle autorità per assegnare un nobel collettivo alle donne d’Africa, volenti o nolenti, motore del Continente.
Lo slogan di Noppaw era “Walking Africa deserves a Nobel” (L’Africa che cammina merita un Nobel). Un Nobel quindi all’Africa che procede, che evolve, che cresce, e allo stesso tempo alle gambe, ai piedi nudi  delle centinaia di donne che ogni giorno nel Terzo Mondo percorrono strade infinite per la famiglia. Come mi ha spiegato Mami Gueye, un’amica Senegalese, “si dice l’Africa cammina con i piedi delle donne. Tocca sempre alle donne fare sacrifici per assicurare un futuro ai figli. Anche quando c’è la guerra o quando gli uomini emigrano, la donna resta al villaggio, a curare i figli. In Europa la donna africana è spesso dimenticata, sottovalutata e nascosta, ma in realtà molte donne hanno voglia di fare, sono innovatrici e le conoscenze che imparano in Europa le utilizzano per aiutare il Paese d’origine.”
E in fondo, anche se nel 2011 il Nobel collettivo per la Pace non c’è stato, sono state ben 2 icone simbolo delle donne d’Africa a ricevere l’importante riconoscimento: Ellen Johnson Sirleaf e Leymah Gbowee, entrambe impegnate in Liberia. Questo vorrà pur dire qualcosa.
Non c’è dubbio quindi che se volgiamo veder crescere e rinascere l’Africa, senza nulla togliere agli uomini, vale la pena puntare sulle donne. Le donne sono la vera scommessa d’Africa, e per quanto abbiamo potuto constatare, sono una scommessa vinta.
Tramite la Banca del Microcredito, avviata in Burkina Faso, Senegal e Uganda, il Movimento Shalom sostiene ogni anno cooperative femminili per dare loro modo di avviare attività indipendenti: come è risaputo, in Africa è molto difficile ottenere un prestito, soprattutto perché le Banche chiedono interessi altissimi. Shalom invece mette a disposizione prestiti che poi vengono restituiti maggiorati di una piccola percentuale di interessi, per finanziare a loro volta altri progetti.
Solo nel 2010 si sono sostenute 87 associazioni per un totale di 1.475 donne, che hanno avviato varie tipologie di attività: allevamento di animali, vendita del pesce, apertura di negozi, attività agricole, bar, mercerie e molto altro, restituendo quasi in toto tutti i finanziamenti ottenuti.
Questo per loro non è solo acquisire un lavoro, equivale a riconquistare la libertà di sostentare la famiglia, la dignità di incedere ogni giorno con la testa alta, con la consapevolezza che qualcuno ha creduto in loro, che qualcuno ha voluto dare loro un’altra chance. Io ho conosciuto le donne del Microcredito in Burkina Faso: si accalcavano intorno a don Cristiani eccitate, felici e commosse. Io non conosco il francese, non so che cosa dicessero, ma dai loro sorrisi e dalle braccia allargate, capivo che per loro il Microcredito aveva significato ben più di un piccolo prestito.
Citando le meravigliose parole, delicate e forti insieme, di Elisa Kidanè, suora comboniana eritrea scrittrice di Nigrizia, bisognerebbe raccontare le piccole storie che ogni giorno tessono le donne africane attraverso le loro battaglie quotidiane per svegliare in qualche modo il continente dal suo torpore centenario: “Bisognerebbe ascoltare queste storie minime. Ma nessun telegiornale sembra volerle riferire. Facile e comodo sbattere in prima pagina la miseria altrui e tacere sulle cause che l’hanno generata. Semplice e sbrigativo pubblicare un poster strappalacrime di una mamma con il figlio che succhia un seno avvizzito, e non raccontare le faticose battaglie e le piccole vittorie ottenute – ogni giorno, caparbiamente – da milioni di donne a piedi scalzi e mani nude.”
Margherita Nieri