Il Burkina Faso al centro di troppi interessi

Il Burkina Faso al centro di troppi interessi

di Sandro Cappelletto

Dove sarà e quando verrà proclamata la nuova capitale dello Stato Islamico? In Mauritania, in Mali, in Burkina Faso, in Niger, in Ciad, in quale dei cinque stati che formano la vasta regione del Sahel, dove è ormai in corso una guerra aperta, che per il momento segna soprattutto successi per i diversi gruppi jihadisti, in un impressionante intensificarsi di azioni militari, stragi, saccheggi, concentrati in particolare in due nazioni, Mali e Burkina Faso? Il 23 marzo 2019, appena poche ore dopo la dichiarazione del Segretario di Stato U.S.A. che annunciava la sconfitta dell’Isis in Iraq e in Siria, un comunicato dello Stato Islamico nel Grande Sahara proclamava «l’inizio delle operazioni in Burkina – Faso». Non si è trattato di un annuncio ad effetto, non sostenuto dalla successiva verità dei fatti, se neppure un anno dopo, in occasione dell’incontro di Addis Abeba dello scorso 8 febbraio, Moussa Faki Mahamat, presidente della Commissione dell’Unione Africana, ha constatato: «Gli Stati del Sahel rischiano il collasso». E ha chiamato i governi dell’intero continente a dare una risposta adeguata al progetto jihadista, per «spegnere il fuoco» che ormai divampa. Faki Mahamat ha evidenziato un collegamento diretto tra la guerra in Libia e l’intensificarsi delle azioni terroriste nel Sahel, ricordando che «un grande numero di uomini in armi ha lasciato la Libia per installarsi in Mali, mentre i principali attori internazionali non hanno compreso la gravità della situazione». Parole che ricordano quale sia l’obiettivo capace di unire la galassia dei gruppi jihadisti combattenti, ciascuno dotato di una propria autonomia militare e logistica, ma uniti tutti per raggiungere lo scopo strategico: la creazione di un territorio transnazionale posto sotto il loro controllo ed esteso dal Golfo di Guinea fino alle coste mediterranee della Libia. Uno Stato incistato negli altri Stati, una striscia di terra dove insediare la propria autorità politica, militare, religiosa, come accaduto negli anni scorsi tra Siria e Iraq. Mentre i confini del conflitto si estendono (notizie sulla presenza di gruppi jihadisti arrivano anche dal Benin), la risposta degli Stati nazionali continua ad essere insufficiente, come testimonia il sostanziale ritiro delle forze di sicurezza da alcune zone del Mali e del Burkina, e l’aumento del numero dei profughi interni, ormai stimati, solo in Burkina, in 600.000. Alcune migliaia di loro, privi di tutto, si sono accampati accanto a Laafi Rogo, la casa madre del Movimento Shalom in Burkina, nella capitale Ouagadougou. Se il governo e l’esercito del Burkina sembrano esitare e misurare ogni passo in vista delle elezioni presidenziali del prossimo novembre, è l’intera regione ad essere entrata in una fase di violento disequilibrio. Scrive Andrea de Georgio, giornalista esperto di vicende saheliane: «In questo territorio diverse potenze mondiali si spartiscono influenza e posizionamento strategico su un territorio enorme, poco affollato e ricco di materie prime. Se attori “postcoloniali” come Francia e Stati Uniti tentano timidamente di defilarsi dopo sette anni di poco efficace guerra al terrorismo con Parigi in cerca di alleati europei che possano coprire la ritirata e Washington (più di mille uomini, basi e droni sparsi per il Sahel) in graduale smantellamento del proprio contingente – nuovi soggetti cercano di utilizzare il conflitto contro il jihadismo per riposizionarsi strategicamente su questo scacchiere». I segnali rimangono contraddittori. Se la Francia chiede il sostegno dei suoi alleati europei per il conflitto in Sahel, in Libia rivendica una diversa libertà d’azione, schierandosi con il governo di Khalifa Belqasim Haftar, non riconosciuto dai principali alleati di Parigi. Il presidente Macron, convinto dell’attuale inefficacia dell’azione del G5, l’esercito formato da militari dei cinque paesi saheliani, formato nel febbraio 2014 e recentemente rifinanziato, ha inviato altri 600 soldati per implementare le truppe impegnate nell’operazione Barkhane, anch’essa nata nel 2014 con lo stesso obiettivo del G5: contrastare l’insorgere delle azioni terroriste. I risultati rimangono poco confortanti e analoga debolezza sembra contrassegnare gli sforzi della missione di pace delle Nazioni Unite, stanziata a Gao, in Mali. L’Italia ha aperto nuove ambasciate in Burkina e in Niger, dove da due anni ha avviato la missione Deserto rosso, finalizzata ad addestrare i militari locali in «attività di sorveglianza e di controllo del territorio» nel tentativo di contrastare sia le azioni terroristiche, sia il flusso dei migranti controllato da organizzazioni criminali transnazionali. La Germania ha donato 46 milioni di euro al governo del Burkina, la Russia ha organizzato un vertice pan-africano, la Cina da tempo ha stretto solidi legami commerciali e nel settore delle infrastrutture, mentre non siamo ancora in grado di valutare l’impatto che su queste recenti relazioni avrà l’epidemia di coronavirus. A Wuhan, la città culla dell’epidemia, vivono migliaia di studenti africani. Nel fronte jihadista, schierato all’interno del mondo musulmano sul fronte sunnita e sostenuto da una amplissima disponibilità finanziaria proveniente da fonti diverse, evidenti e occulte, si rafforzano nuove figure di leader, come sottolinea l’Osservatorio strategico del nostro Ministero della Difesa: «In questo inquietante scenario si staglia lo Stato Islamico per il Grande Sahara, che può contare su un’eterogenea alleanza di radicali islamici di varia provenienza, guidati dalla carismatica figura dell’emiro Adnan Walis al-Sahravi, nome di guerra di Lehbib Ould Ali Quid Said Ould Joumani, nato nel 1973 a Laayoune, la principale città del territorio conteso del Sahara occidentale»: l’ambizione ultima dell’emiro è di estendere questa nuova nazione islamica fino alle rive dell’Oceano Atlantico. «Il gruppo di al-Sahrawi – continua l’analisi dell’Osservatorio – è riuscito ad accrescere la sua influenza nell’area adottando la strategia di intervenire nei conflitti etnici per reclutare nuovi proseliti tra le comunità emarginate, in particolare i fulani, tra i quali ha guadagnato notevole sostegno popolare. La mancanza di opportunità economiche e la marginalizzazione sociale hanno certamente influito in maniera determinante sulla decisione di molti giovani fulani di arruolarsi nell’ISGS». Scelte che non coinvolgono solo i fulani. Antichi rancori inter-etnici, che sembravano scomparsi dalla regione, crudamente riappaiono ed avviano ulteriori conflitti. L’etnia peul, formata da pastori seminomadi e distribuita tra Mali, Burkina, Niger, ha subito nei propri villaggi attacchi ed eccidi, dopo essere stata sommariamente accusata di fiancheggiare l’iniziativa jihadista.

La risposta militare latita, ed è necessaria. Ma una risposta che abbia l’ambizione di delineare una strategia vincente potrà essere solo militare? «Ci sono abbastanza interessi nel mondo coalizzati contro il vero interesse dell’Africa. Non ci sarò sviluppo endogeno senza ricerca endogena. Capita che non possiamo neppure estrarre la nostra acqua. Il nostro ruolo non è soltanto sopravvivere, ma riappropriarsi del nostro territorio e delle nostre vite»: Joseph Ki-Zerbo, il primo intellettuale africano che abbia scritto la storia del proprio continente, è scomparso nel 2006. Questa sua riflessione rimane del tutto attuale, mentre, a sessant’anni dalla conquista dell’indipendenza formale, emerge la fragilità di una riflessione africana su quale sia il reale interesse dell’Africa contemporanea, stritolata – come appare evidente nel Sahel – nella tenaglia di conflitti antichi e nuovi, di forze spietate, lontana dalla riconquista di se stessa.